Nel regno della Brenva
Era il 22 Settembre 2004, avevo poco più che vent'anni e l'estate era scivolata via velocemente. Stavo facendo ritorno da Cogne verso le nostre più tondeggianti colline e nonostante avessimo concluso l'ascensione della cresta sud-ovest della Torre di Lavina in cuor mio ero triste. Infatti, sarei partito da lì a poco per gli Stati Uniti e dunque, almeno per un po', lontano dalle amate montagne, dalle piacevoli consuetudini e dagli amici cari.
In quel momento l'unica cosa che mi rincuorava era un vecchio libro che avevo ricevuto in prestito, ignoravo persino chi fosse l'autore ma parlava di montagna e tanto bastava. Durante il mio soggiorno in America lessi quel libro tre volte. La copertina è davanti ai miei occhi e ancor di più la sua didascalia, che suonava così: "Nel regno della Brenva, scavalcando il Col Moore". Io non lo sapevo ancora ma in quel momento avevo già deciso…
Ma perché la Brenva? Perché andare a cacciarsi in uno degli ambienti più severi del Monte Bianco e delle intere Alpi? Beh, in realtà ci ho pensato molto anch'io se intraprendere questa salita.Ma alla fine mi risultava più difficile resistere al desiderio febbrile di andare a metterci il naso, di "provarmi" su quella parete, che correre il rischio. La domanda che si faceva largo nei miei pensieriera piuttosto, perché no?
E in effetti, l'8 agosto scorso ero lassù, in località Pre de Pascal, con il mio binocolo intento a osservare bene il tratto d'itinerario che più mi dava da pensare, quello dal Col Moore fino a raggiungere il filo inferiore dello sperone. Sapevo che quella sarebbe stata la parte più complessa della salita, per l'individuazione dell'itinerario al buio e per l'eventuale sopraffazione morale che avremmo potuto subire "dall'ambiente" una volta là. La paura, d'altronde, è una delle tante sensazioni sentite dall'alpinista e che, unitamente alle altre, gli dà ragione di essere. Guai se in montagna non si provasse il senso della paura. Significherebbe essere incoscienti, ma soprattutto non potersi più procurare la gioia sublime di saperla vincere.
In fin dei conti l'alternativa c'era. Si sarebbe potuto attaccare lo sperone per la variante Gussfeltd e quindi evitare tutta la parte d'itinerario oggetto di riflessione. La variante è senza dubbio più veloce, diretta e di più facile individuazione. Ma come si fa a fare lo sperone della Brenva senza passare dalla Brenva? Come si fa, dico io, a tagliare la parte più interessante della via, quella che dona ingaggio alla salita. Tagliare per la variante Gussfeltd, evitando la parte inferiore della via Moore, avrebbe significato mettere ancora più in evidenza il "cuore" dello sperone stesso.Fare la variante per me sarebbe stato come assaporare un bicchiere di buon vino senza l'ausilio del gusto o peggio come accarezzare un bel viso senza il dono del tatto. Semplicemente non ci si poteva sottrarre dal fare ciò che andava fatto.
Il 17 agosto ci ritroviamo dunque, io e il mio compagno, sul ghiacciaio del Gigante verso il colle della Fourche. Passiamo sotto la Nord della Tour Ronde scalata per la terza volta nel mese di luglio e poco più in là del Grand Capucin, dove solo quattro giorni prima avevo accarezzato le pieghe di Voyage (… ma questa è un'altra storia). Saliamo velocissimi al bivacco e come l'altro anno siamo i primi ad accedervi. Solo dopo poche ore l'ameno bivacco avrebbe dovuto contenere 22 ospiti!
Durante una bella giornata dal balcone del bivacco la visuale che vi si offre è qualcosa d'impagabile. È il versante est del Monte Bianco, l'ottava meraviglia del mondo, l'apoteosi dell'alpinismo. Qua e là le rocce di protogino rosso sembrano affiorare come piccole isole in un grande mare di ghiaccio e neve, sconvolto da un dedalo di crepacci e seracchi. Per l'alpinista alla Fourche, guardare ed essere soggiogati dal fascino del Brenva è una cosa sola, la cosa più meravigliosa e allo stesso tempo opprimente chepossa provare. Dopo una merenda frugale, ci rendiamo conto che della folta truppa 18 sono diretti alla Kuffner, 2 alla Blanche e 2 sulla Brenva. Noi. Qualcosa vorrà pur dire questo.
Riposarsi, pensare, "ma gelerà?" Minchia sono in mutante e fa un caldo da manicomio!" Dormire, svegliarsi, girarsi, ripensare "oh, ma la luna a che ora gira dietro al Pilier D'Angle?" Verso le 4.00", "e quattro brocche?"… "Shhh – S'il vous plaít étre tranquille!" I francesi… Suona la sveglia, è mezzanotte e mezza.Abbiamo ancora il the in gola mentre facciamo la prima doppia dalla ringhiera della Fourche, non avrei pensato mi costasse così tanto. In effetti, l'ingaggio c'è, eccome e chi non lo avverte non sa dove sta andando. Fare le doppie e calarsi sul ghiacciaio della Brenva genera una strana sensazione. Ma si ingoia e si procede.
La luce della luna rende il tutto ancora più magico. Sul plateau superiore del Glacier de la Brenva corriamo, passiamo di fianco alla "balena" e apparentemente fila via tutto liscio (i buchi? Meglio non pensarci). Attraversiamo il conoide del couloir che scende dal Col della Brenva, pieno zeppo di blocchi di ghiaccio grandi come automobili. Esclusa dunque la Gussfeltd, ci accingiamo a risalire il ripido pendio che da accesso al Col Moore… ancora un passo… Bang! Ci siamo, è fatta, siamo nel regno della Brenva. Da questo momento siamo degli umili sudditi, delle formiche alla corte di sua maestà la regina.
Scendiamo di un centinaio di metri, sono circa le 2.00 del mattino, ci attende il lungo traverso verso la Sentinella Rossa. Qui l'ambiente è prepotente. Alle 2.10 i nostri pensieri sono interrotti dal fragore che nessun alpinista vorrebbe sentire con le proprie orecchie. È un boato diabolico, è un colpo al cuore! Un seracco ciclopico sta crollando da 800 o 1.000 metri più in alto… Io e Fede ci guardiamo negli occhi, due secondi, due amici, una corda, un sogno… attimi lunghi come ore e pesanti come piombo.Terrore vero. L'aria… Arriva… no. Tutto tace, noi compresi.
In fin dei conti la Brenva ci ha voluto fare un regalo, ha voluto rendere la nostra salita perfetta. Ci ha fatto una domanda... La Brenva – dove Lei può tutto e tu non puoi nulla. Si va avanti.Questa è stata la nostra risposta.
Ci troviamo proprio sotto la parte di parete sconvolta dalla grande frana degli anni '90. Guardo in alto, prospettive diverse, tutto trasformato le dimensioni sono pazzesche, enormi, non ritrovo l'itinerario studiato su Neige – Glace, ma continuiamo. Mi volgo all'indietro cercando conforto nello sguardo del mio amico. Chicco mi dice una frase che rimarrà a lungo nella mia memoria: "Manu, lo sai tu come lo so io, da qui non si torna indietro". Era vero. Non glielo avrei augurato nemmeno al mio peggior nemicodi dover tornare indietro di là.
Eravamo ormai sopra la Sentinella, la luna aveva girato ed erasempre più buio. Le parti di misto si andavano attenuando e vedevo la cresta sommitale dello sperone venirci incontro. Arriviamo in cresta, molto aerea all'inizio ma le condizioni sono buone. La cresta diviene poco a poco uno scivolo ampio abbastanza monotono. Saliamo in conserva la prima parte dello scivolo sino a quando inizia ad affiorare un po' di ghiaccio. Proseguiamo quindi in conserva protetta per cercare comunque di mantenere il ritmo di salita. Nel frattempo inizia ad albeggiare e volgendo lo sguardo verso l'alto scorgiamo il seracco sommitale.
È l'ultima parte della salita, ma non è ancora finita. Raggiungiamo il "pollice", un monolite di granito alto una decina di metri. Non ho dubbi, passiamo tra il "pollice" e il seracco e poi pieghiamo a sinistra forzando direttamente il seracco. Evitiamo quindi il lungo traverso verso il Mur de la Cotê che oltre ad intaccare l'estetica della linea di salita comporterebbe il rischio di traversare pendii carichi e con placche a vento, dovute alla recente nevicata. Sul seracco facciamo un tiro di corda, non è difficile ma siamo a circa 4.300 m. e guardiamo bene, dove piantare le nostre picche.
Alla fine del seracco facciamo ancora un paio di zig-zag e finalmente usciamo poco sotto le Petit Rocher Rouges. La tensione accumulata durante la salita lascia lo spazio alla gioia. Ci commuoviamo entrambi. Da lì, in circa un'ora e mezza aggiuntiva saliamo in coppa al Bianco per facili pendii.
Si conclude così, la nostra personale trilogia sui tre versanti est dei Trois Monts dopo il couloir Jager al Tacul e la Kuffner al Maudit. Un ringraziamento doveroso va all'amico e compagno di cordasenza il quale non sarei riuscito a realizzare questo piccolo, inutile ma meraviglioso sogno.
Il pensiero di entrambi va necessariamente a Francesco Oregioni e compagno, scomparsi l'anno prima davanti a noi, in questi stessi ambienti. Ciao Francesco e Davide.
Quel vecchio libro era del 1961 ed era la prima edizione de "Le mie montagne". Da quel libro ho capito che "scalare non è una battaglia con gli elementi, tantomeno contro la legge di gravità; è una battaglia con se stessi. E come per me… scalare mi riporta alla vita – mi de-omogeneizza – mi allontana dalla sicura prevedibilità del nostro piccolo confortevole mondo artificiale. Quando scalo, sono vero. Quando sono immerso nella mia paura, capisco chi sono veramente. Quando ritorno a valle, sono rinato e il sole è più splendente".
Nessun commento:
Posta un commento